Angelo Lionti, un partigiano piazzese.

Pubblichiamo, col permesso dell’autore, una pagina del blog Appunti Pindarici

Angelo Lionti, un partigiano piazzese.
Per me il 25 aprile è sempre stata una data molto importante, sarà un caso, ma è anche il giorno di San Marco.
L’intervista che segue è tratta dal libro “Per non dimenticare”, raccolta di testimonianze di reduci della II guerra mondiale, curata da Ignazio Nigrelli.
Anche Piazza Armerina ha una storia della Resistenza da raccontare.

Buona lettura.

Mi chiamo Lionti Angelo e sono nato a Piazza Armerina il 25.8.20. Quando scoppiò la guerra ero già sotto le armi quale Carabiniere presso la Legione allievi a Roma, da qui fui trasferito al Gruppo Carabinieri di Pastrengo V.LE Romania: poiché si doveva costituire una sezione celere aderii volontario e ai primi di Gennaio fui trasferito in Albania presso la 384 sezione Celere. Ci imbarcammo a Bari e sbarcammo a Durazzo, eravamo una settantina di cui metà motociclisti e metà a cavallo, io appartenevo alla sezione a cavallo. Qui potei assistere, già il primo giorno di arrivo, ad un cruento bombardamento ad opera dei greci che produsse diversi danni agli alloggi ove eravamo destinati. Da Durazzo fui trasferito ad Elbasan ove cominciai il mio servizio presso il Comando dell’Armata, io fui destinato al servizio di smistamento dei prigionieri. Qui non ho nulla di particolare da evidenziare se non diversi bombardamenti perpetrati dai greci. Rimasi in Albania fino alla capitolazione della Grecia e Jugoslavia (aprile 1942), da qui il mio reparto fu trasferito in Kosovo, e precisamente a Pec, ove attualmente c’è il nostro contingente di soldati e posso dire che fummo destinati a vigilare sull’incolumità dei residenti i quali subivano continue aggressioni da parte dei serbi, così come avviene oggi.
Successivamente siamo rientrati a Tirana, io da qui fui trasferito a Firenze ed ammesso al corso per sott’Ufficiali (ottobre 1942).Quale vice brigadiere fui destinato a Roma in forza alla stazione di Ponte Milvio prima e a Monte Mario dopo, siamo già nel 1943. Ricordo che spesso facevo servizio lungo la strada ove abitava la sig.ra Petacci. Dopo di che fui inviato a comandare un posto fisso, sempre a Roma, con oltre settanta uomini,. (aprile-maggio 1943).Da qui potei assistere alla caduta del fascismo e alla ascesa di Badoglio (25 luglio 1943). Fu proprio il mio gruppo, nella persona del maresciallo maggiore Osvaldo Antichi che ebbe l’incarico di custodire Mussolini: a tale proposito debbo dire che la scelta dell’Arma per la sua custodia fu voluta personalmente dallo stesso duce, ciò però ci alienò le simpatie dei fascisti da cui ci dovevamo continuamente guardare; diventammo un reparto a rischio in quanto preso di mira dai fascisti. Arriva così la notizia dell’armistizio. Assistetti allo smembramento del nostro esercito, chi fuggiva a destra e chi a sinistra.
Io assieme ad altro commilitoni decidemmo di rimanere e lottare partecipando all’organizzazione che il generale dei Carabinieri Filippo Caruso aveva creato, il “centro clandestino” dei carabinieri contro l’occupazione nazista di Roma, nota come “banda Caruso”, appunto. Gli ordini erano di agevolare la ritirata dei tedeschi e reagire solo nel caso in cui avessimo riscontrato resistenza. Ricordo che pur di espletare il mio dovere vivevo continuamente affrontando il pericolo e con mezzi di fortuna. Una volta dormivo in un sottoscala, un’altra dentro un tram ecc. Si sopravviveva con espedienti. Ad ogni modo riuscii a mettere assieme un gruppo di uomini, non solo Carabinieri ma anche qualche civile, e costituire una resistenza ai tedeschi che ci davano continuamente la caccia, soprattutto lo squadrone fascista di Pollastrini..
Ricordo diverse azioni in cui sottraemmo molte armi ai tedeschi, per esempio, il 20 settembre del 1943, con altri, riuscì ad entrare e prelevare una mitragliatrice Breda, due fucili mitragliatori con più di 2000 colpi nella polveriera dell”Acqua Traversa”, già occupata dai tedeschi, il 25 settembre ’43 assieme al carabiniere Antonio Ceci disarmammo due tedeschi in Viale delle Medaglie d’Oro, il 20 ottobre sempre di quell’anno rubai due mitra da una camionetta tedesca lasciata incustodita. Il 7 ottobre ero riuscito a sottrarmi alla cattura dei tedeschi e a mettere in salvo tutti i carabinieri del Posto Fisso del Forte di Monte Mario, mettendo in salvo tutte le armi in dotazione nascondendole in piccoli depositi in un bosco vicino. Il 10 ottobre del 43, dopo nuovi accordi con il maresciallo Antichi, formai la mia squadra, costituì anche un plotone di 30 civili armati abitanti a Belsito, in Viale delle Medaglie d’Oro e in via Trionfale. Il 28 ottobre del ’43 mi introdussi nella sede della Legione dei Carabinieri del Lazio e portai via dei timbri per timbrare licenze false per far ottenere le carte annonarie a parte dei carabinieri sbandati. Nel dicembre del ’43 riuscì impedire che un deposito di armi clandestino sotto il forte di Monte Mario venisse consegnato ai tedeschi, convincendo un maresciallo maggiore a non rivelarne l’esistenza. Alla fine del 1943 cercai di organizzare un attentato contro il maresciallo Kesserling: avevo saputo che frequentava abitualmente la villa del conte Miani requisita dai tedeschi: dopo un pedinamento e sopralluoghi, il gruppo da me preparato pronto, venni consigliato di soprassedere per non compromettere la popolazione civile, sempre a dicembre cercai di far saltare una potente stazione radio trasmittente al forte di Monte Mario, ma le bombe tedesche che dovevo usare non potevano distruggere la fortissima difesa delle strutture e dei venti uomini di guardia, perciò dovetti desistere, anche perché il tentativo fu scoperto e sparando colpi di pistola riuscì ad eclissarmi.
Nel gennaio del 44 fui avvertito che il capitano tedesco Lank e il repubblichino Patrizi avevano disposto il mio arresto e perciò dovevo allontanarmi dalla zona di Monte Mario. Nel ’44 ricordo altri episodi tra i quali il salvataggio di diversi prigionieri alleati spostandoli dalla località di Prati in una villetta di Via Flaminia; assieme all’avvocato Rodolfo Passerini e al dottore Barela accompagnammo un soldato britannico, William Harris, alla villetta, in pieno mezzogiorno, mentre i tedeschi presidiavano la zona. Nell’aprile del ’44, grazie ad alcune conoscenze andai al Ministero dell’Africa Italiana e ritirai molti caricatori di mitra e diverse bombe a mano che poi nascosi nell’orto della fornaia di Belsito. Inevitabile fu la loro reazione: si intensificarono i rastrellamenti e le esecuzioni.
Avevo trovato rifugio in via Clivo di Cinna, verso le ore 23, a causa di un tradimento anch’io, assieme ad alcuni dei miei uomini, fui arrestato; già in quel rifugio cominciarono a interrogarmi: domande e colpi di scudiscio si alternavano, ma io non volli e non potevo tradire; da lì mi ordinarono di uscire, io li precedevo di alcuni passi, perciò, riuscì di nascosto a tirare dalla tasca la nota scritta dei miei compagni e ingoiarla. Fui condotto in carcere a Regina Coeli, nel III Braccio, in una cella individuale, era il 2 maggio 1944. Qui fui più volte “interrogato” sia da italiani sia da tedeschi e picchiato selvaggiamente per farmi confessare i nomi dei miei carabinieri che lottavano contro i tedeschi. Non dissi mai una parola e a causa di ciò erano talmente i pestaggi che subivo che spesso svenivo dal dolore: usavano lo scudiscio e bastoni muniti di chiodi. Conservo ancora la foto della camicia che indossavo, tutta macchiata di sangue. Venni interrogato per circa dodici volte dal 2 al 17 maggio, con bestialità, brutalmente, ma da me non ebbero mai la confessione.
Tentarono di farmi contraddire mettendomi a confronto con altri prigionieri che conoscevo e che mi conoscevano, senza riuscire a piegarmi ai loro voleri, nonostante il mio corpo fosse ormai ridotto ad una piaga, nonostante non potessi più dormire per il dolore. Le mie condizioni erano tali che due dei medici del III Braccio di nascosto mi passavano delle pillole calmanti che lenivano un po’ il dolore, dandomi così la felicità di qualche ora di sonno. In carcere conobbi un piazzese di nome Saverio Arcurio con cui organizzai un comitato che si incaricò di redigere un piano per l’evasione dei detenuti. Avevamo diversi problemi tra cui quello che riguardava l’evacuazione di diverse donne, per lo più mogli di alti ufficiali italiani datisi alla macchia; non potendo arrestare i mariti avevano pensato di detenere le mogli. Venne però il tempo del processo che si svolse il 31 maggio 1944: nell’arco di un pallido pomeriggio uno squallido tribunale germanico dopo un interrogatorio farsa mi condannò alla pena capitale mediante fucilazione. Ritornai in carcere con l’animo di chi doveva essere ucciso da lì a qualche giorno. Dentro di me venivano in mente tanti pensieri, i miei affetti più cari, la mia terra di Sicilia, Piazza
Non mi perdetti d’animo, anche perché sentivamo le confortanti notizie sull’arrivo imminente degli alleati. Ma un giorno ascoltammo dei passi sinistri lungo i corridoi di Regina Coeli. Era il plotone di esecuzione che veniva a prelevare i condannati a morte. Diverse esecuzioni furono messe in essere, io però mi salvai grazie alla fortuna e ad uno stragemma che mi consentì di sopravvivere e di raccontare la mia vicenda. Di lì a poco i tedeschi si ritirarono e i nostri custodi diventarono gli austriaci, oltre ai collaborazionisti italiani. Prendemmo coraggio ed un giorno decidemmo la sommossa.
La mattina del 4 giugno ’44 ci tenemmo tutti pronti per un’azione di forza contro i nostri sicari; il comandante Saverio Arcurio riuscì a “convincere” la guardia armata che tutti eravamo disposti a vendere cara la nostra pelle, alle ore 12 ci ritrovammo nuovamente fuori, ma con un’aria diversa, non c’erano più tedeschi. I’indomani cercai di riprendere contatto con i miei uomini, però non fu possibile; a Belsito trovai altri carabinieri e patrioti coi quali accerchiammo e costringemmo alla resa due militi fascisti, cercai di bloccare il vicebrigadiere della PAI Gragnani che però riuscì a sfuggirmi e a dare l’allarme alla vicina caserma della PAI dalla quale vennero fuori 18 uomini che alla fine pensarono bene di darsela a gambe abbandonando nelle nostre mani la caserma dove trovammo anche l’elenco della squadra del fascista Gragnani.
Io non potei partecipare all’arrivo degli americani a Roma in quanto fui inviato in convalescenza a causa delle ferite riportate durante gli i pestaggi cui venivo sottoposto in carcere. Quando ritornai a Roma, a guerra già finita e col grado di Maresciallo, fui inviato a comandare la Stazione di S. Pietro; sono stato io ad intervenire e a sedare la prima rivolta di detenuti comuni del dopoguerra nel carcere di Regina Coeli in Roma.

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